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10/10/09

TRA PECHINO E WASHINGTON L'ASSE DELLA GREEN ECONOMY


New York, le promesse di Cina e Stati Uniti: ridurre le emissioni di gas nocivi da subito, con possibili trasferimenti di nuove tecnologie ai Paesi emergenti dal nostro corrispondente 


FEDERICO RAMPINI



NEW YORK - Obama e Hu Jintao hanno usato per la prima volta toni identici, nel denunciare i pericoli del cambiamento climatico alla conferenza Onu sull'ambiente.

"La minaccia è urgente - ha detto il presidente americano - , il tempo stringe se non vogliamo lasciare alla generazioni future una catastrofe irreversible". Gli ha fatto eco il leader cinese: "in gioco la sopravvivenza dell'umanità, abbiamo una responsabilità comune". Il tono è cambiato, dai tempi in cui l'Amministrazione Bush negava perfino la realtà del surriscaldamento da CO2, e
la Cina scaricava ogni colpa sui paesi più ricchi.

Il summit di New York ha dato la misura di un atteggiamento nuovo. Parlano un linguaggio più simile i due giganti che insieme generano il 40% di tutte le emissioni carboniche della terra.

La convergenza tra Obama e Hu sui grandi principi è un progresso importante ma non sufficiente.
Paradossalmente, malgrado la grande distanza tra i due sistemi politici americano e cinese, in questo campo ambedue i presidenti sono più avanti dei rispettivi paesi. Non fu così in passato. Ma oggi nella democrazia Usa come nel regime autoritario di Pechino, è ai vertici di governo che spesso si trovano le posizioni più avanzate. Devono affrontare resistenze tenaci nella società, in particolare nel mondo delle imprese.

A Washington
la Camera ha approvato una legge importante sul risparmio energetico che al Senato si è arenata; la lobby del petrolio e del carbone organizzano un ostruzionismo efficace, usano il ricatto della crisi economica per respingere vincoli e nuove regole. Hu Jintao ha promesso di ridurre "l'intensità energetica" del modello di sviluppo cinese, cioè di spezzare l'automatismo perverso tra crescita economica e distruzione di risorse naturali. E' vero che la Cina avanza rapidamente verso il 15% di fonti alternative, ha in campo investimenti colossali nel solare, eolico, nucleare. E ha rincarato la benzina per incentivare gli automobilisti al risparmio. Resta però potente la lobby dell'industria pesante, e il boom di investimenti in infrastrutture deciso da Pechino in funzione anti-recessione segue una vecchia logica di sviluppo non sostenibile.





Le difficoltà di Obama e Hu sono comuni ad altri attori mondiali. L'Europa "virtuosa" si nasconde dietro i ritardi americani, ma il suo esperimento sul "cap-and-trade" (la monetizzazione dei permessi sulle emissioni) ha dato luogo ad abusi, e i risultati sono meno positivi del previsto. Complice la recessione, anche i paesi europei sono riluttanti ad assumere impegni precisi sul calo dell'anidride carbonica entro il 2020. India, Russia, Brasile, da parte loro si fanno scudo della posizione cinese: tocca ai paesi di vecchia industrializzazione muoversi per primi e sopportare l'onere prevalente. Tutti sembrano più disponibili a ragionare sul 2050 che sul medio termine. "E' disonesto - denuncia il ministro dell'Ambiente indiano Jairam Ramesh - perché significa spostare gli obiettivi a una data in cui nessuno di noi sarà qui a rendere conto di quel che ha fatto".

Sarkozy ha raccolto queste preoccupazioni, proponendo un altro summit prima della fine dell'anno, per riunire tutti i "grandi inquinatori", quei paesi che insieme generano l'80% delle emissioni carboniche. Anche sull'ambiente gli europei cominciano a dare segni di insofferenza verso Obama. La tendenza a "demonizzare"
la Cina lascia il campo a un revival di accuse verso Washington. Sarà colpa del complicato processo legislativo, ma la svolta verde di Obama non è così sostanziale come si aspettavano le opinioni pubbliche europee.

Tuttavia nel duetto Obama-Hu ieri a New York è emerso un vero margine di manovra negoziale.
La Cina, l'India e altri paesi emergenti chiedono impegni precisi da parte dell'Occidente sul trasferimento di tecnologie verdi e di capitali, per aiutare i paesi emergenti ad affrontare l'adattamento necessario. Hu Jintao non ha messo il suo paese fra quelli bisognosi di aiuti, che invece vuole vedere indirizzati soprattutto verso i più poveri del pianeta. E' una posizione politicamente abile, rafforza il credito di Pechino nei confronti dei suoi alleati del Terzo mondo. La richiesta cinese e indiana non è esorbitante: l'1% del Pil dei paesi più ricchi è quanto chiedono di destinare agli "aiuti verdi" verso il Sud del Pianeta. Si tratta di 300 miliardi di dollari, un decimo di quanto è stato usato per i salvataggi delle banche americane. Hu Jintao non si è sbilanciato su quanto la Cina potrebbe tagliare le sue emissioni di CO2 ma ha parlato di una "riduzione notevole" entro il 2020. Questo linguaggio può essere colto come la disponibilità preliminare ad aprire un negoziato. In cui tutti devono arrivare disposti a mettere qualcosa sul tavolo.


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